Se hai 11 minuti per conoscermi, leggi l’estratto della mia intervista
QUELLE STORIE NASCOSTE DIETRO LA FACCIATA DEL BRAND
di Marina Marinetti pubblicata il 9 settembre 2020 su ECONOMYMAGAZINE.ITSono convinta che la comunicazione abbia un potere grandissimo e, se utilizzata in modo etico, possa davvero dare un contributo importante per migliorare la società: divulgare le reali e positive vicende umane che hanno portato alla nascita di grandi e piccoli brand, di aziende storiche e startup, è importante.
Ma cosa c'è dietro a un'agenzia di comunicazione?
Affidare la propria reputazione a qualcun altro significa stringere un rapporto di collaborazione così stretto da richiedere una conoscenza decisamente intima: se è giusto che l'azienda mostri a chi si occupa della comunicazione anche i propri punti deboli, in modo da prevenire eventuali scivoloni, è altrettanto giusto che il comunicatore/comunicatrice si apra completamente con il cliente. C’è del bello, bellissimo direi, nelle ricchissime storie, troppo spesso sconosciute, che si celano dietro i brand che ogni giorno scegliamo. Ci sono persone, spesso famiglie, ed è insieme un grande privilegio e una seria responsabilità poterne gestire l’immagine pubblica e la visibilità sui media, restando nell'ombra.
L'imprinting conta: lei, il suo, l'ha ricevuto giovanissima, già durante il percorso di studi in Lingue e Letterature straniere moderne europee
Volevo continuare a mantenermi gli studi in modo indipendente, quindi ho risposto all’annuncio di una piccola agenzia stampa torinese che produceva informazione per le comunità italiane nel mondo e mi permetteva quindi anche di utilizzare le lingue straniere. Dapprima come collaboratrice esterna e poi come dipendente ho iniziato ad imparare da zero il lavoro del giornalismo e, dopo due anni di pratica, ho potuto iscrivermi all’albo dei giornalisti pubblicisti. Lavorando in una realtà molto piccola ho imparato molto, perché ho dovuto occuparmi di molti aspetti, acquisendo gradualmente maggiori responsabilità fino a diventare una sorta di caporedattore. Una parola altisonante per dire che mi occupavo praticamente di tutto, come succede nelle piccole realtà.
Non sarà stato facile, studiare e lavorare...
È stata dura portare avanti tutte le cose contemporaneamente e rischiavo di lasciare indietro lo studio. Non solo non volevo darla vinta ai miei che temevano non portassi a termine l’università, ma anche io ho uno spirito conservativo (mi spiace sprecare quello che mi ha richiesto tempo e impegno) e ambizioso (cerco di arrivare sempre all’obiettivo) e così mi sono licenziata per cercare qualcosa che mi permettesse di terminare gli studi. Ho allargato l’orizzonte dal giornalismo alla comunicazione in generale e ho mandato il curriculum a tappeto a tutte le società esistenti a Torino: dalle redazioni della carta stampata alle radio e tv, uffici stampa e agenzie di Pubbliche Relazioni, eventi… E ho avuto la fortuna di capitare al momento giusto in uno studio storico torinese di pubbliche relazioni. Sono stata assunta e poco dopo ho anche discusso la mia tesi di laurea in letteratura spagnola contemporanea, che include la mia più grande soddisfazione da giornalista: un’intervista esclusiva allo scrittore ormai scomparso Manuel Vázquez Montalbán (ispiratore del nostro Montalbano di Camilleri) sullo strano rapporto del suo personaggio Pepe Carvalho con i libri.
Da zero a 100 in pochi anni.
Non sapevo davvero cosa fossero le Pubbliche Relazioni, ma rientravano nella comunicazione e questo mi bastava, perché nel frattempo avevo scoperto che, nonostante il mio riserbo, la comunicazione per gli altri mi piaceva. Così sono passata dall’altra parte della barricata: all’epoca erano davvero due lavori diversi e separati, se non addirittura contrapposti, giornalisti da una parte e comunicatori dall’altra. Oggi la situazione è molto più fluida.
Gli studi hanno contato molto.
Ritengo che la cultura umanistica sia la base necessaria per tutte le discipline, incluso quelle scientifiche. Credo che una buona cultura umanistica sia fondamentale anche per un imprenditore o un manager, alla guida di un’azienda o di una parte di essa, perché oltre a saper leggere i numeri e organizzare il lavoro ha la responsabilità enorme del capitale umano. Ma conta anche l'esperienza sul campo: ho potuto interfacciarmi con grandi aziende, i nostri clienti, e capire come lavorano e cosa si aspettano. Un altro grande vantaggio è stato sicuramente la possibilità di lavorare trasversalmente ai settori: dalla cultura all’agroalimentare, dalla scienza all’industria, dalla cosmetica al turismo. E questo approccio è stato particolarmente avvincente per me, che sono una persona curiosa e mi piace imparare tutti i giorni qualcosa di diverso. E tuttora, un aspetto che amo in particolare del mio lavoro, è che per poter proporre contenuti ai media devo prima averli appresi io dai nuovi clienti e averli elaborati. In quasi vent’anni di PR ho imparato un sacco di cose che tornano utili nella vita quotidiana e permettono di avere una visione spesso approfondita e molto ampia delle cose.
Finché non è arrivato il momento di mettersi in proprio.
All’inizio del 2019, dopo tanti anni in agenzia, ho deciso di ricominciare da zero costruendo qualcosa di mio. È stato un grande cambiamento, una decisione a cui sono arrivata dopo anni di valutazioni. Caratterialmente ho bisogno di imparare continuamente, mi piace annusare l’aria intorno a me, vedere come si muove il mondo al di fuori, sperimentare cose nuove… nel frattempo il mondo è cambiato e la comunicazione in particolare.
In che senso?
Oggi la comunicazione annovera molte altre figure di comunicatori, non ci sono più solo giornalisti e uffici stampa, ma un sacco di nuove altre figure nate con i nuovi media. La situazione è fluida e i confini tra una e l’altra si sfumano sempre più. L’immagine delle aziende e delle persone passa da molti canali diversi, non più solo dai media tradizionali (che peraltro sono chiamati anche loro ad adattarsi a nuovi strumenti e modalità) ed è compito del responsabile delle PR conoscere e aggiornarsi costantemente per capire e poter gestire tutti i canali in modo coerente tra loro e rispondente ad una strategia globale, per poter offrire ai propri clienti una visione ed una consulenza professionale completa. Si tratta di mondi interconnessi e collegabili in un flusso di comunicazione circolare e continuo: una grande opportunità!
È diventato un mestiere molto complicato.
Attenzione: non sto affermando che una sola persona può sapere e saper fare tutto, assolutamente no. Ritengo però che chi vuole essere consulente di comunicazione, e poi a livello operativo occuparsi nello specifico della parte di relazioni con i media, deve necessariamente aggiornarsi, studiare e formarsi per capire anche i nuovi media, con le loro dinamiche e le opportunità che offrono. Perché oggi le aziende vogliono principalmente questo. E non conoscerli significa essere manchevoli nei confronti dei clienti, avere delle lacune che non ti consentono di rapportarti al meglio con loro e di non essere neanche in grado di interloquire con altri professionisti a cui magari i clienti affidano le digital e social PR. Quando ho deciso di cambiare, avevo ben chiaro in mente che non volevo subire l’evoluzione in atto, ma cavalcarla ed essere libera di sperimentare. Inoltre, non ho mai visto i nuovi media come gli antagonisti dei media tradizionali.
No?
Sono diversi e in questa diversità cerco di vedere l’opportunità della crescita nella loro integrazione: i media tradizionali, con i loro brand e la loro credibilità costruiti in decenni, sono quello che genera immagine e reputazione; ma i nuovi media, con la potenza dei numeri e lo spazio praticamente infinito possono valorizzare ulteriormente ciò che viene prodotto dalle PR sui media tradizionali, facendo circolare gli articoli laddove magari nella versione cartacea non sarebbero mai arrivati, prolungando la loro vita ben al di là della loro presenza in edicola, costruendo nel tempo un archivio di reputazione sul web basato sull’autorevolezza della carta.
Non avrà fatto tutto da sola, però...
Nella mia mente era già chiaro che non avrei voluto rimanere sola, volevo ricostruire una squadra di persone. E quindi, anziché diventare una libera professionista, ho voluto fondare Master Communication, nata ufficialmente il 7 maggio 2019, e mi sono dedicata alla ricerca clienti. In questa fase di costruzione ho avuto molti sostenitori, oltre a mio marito che mi ha sempre incoraggiato in tutto quello che ho fatto: amici, giornalisti, colleghi e anche concorrenti, professionisti conosciuti negli anni precedenti, che mi hanno aiutato ad entrare in contatto con potenziali clienti.
Perché il nome "Master Communication"?
Non volevo usare il mio nome, perché non volevo appunto restare sola ma avere dei collaboratori, quindi non aveva senso personalizzare troppo. Non sapendo da dove partire per trovare il nome, sono partita comunque dalle mie iniziali per trovare un binomio che esprimesse un’idea di comunicazione a me vicina. Master Communication significa contemporaneamente: “esperti di comunicazione” (perché la società è giovane ma con me e le persone che collaborano abbiamo molti anni di esperienza) ed è anche un invito a governare e gestire la comunicazione in modo consapevole. Anche l’idea del logo è mia, realizzata da un giovane e bravo grafico: La “C” di Communication diventa una vignetta per evocare la comunicazione; la “M” contenuta dalla “C” richiama il simbolo “@”, per coniugare tradizionale e digitale.
E poi sono arrivati i primi clienti.
Il primo incarico per Master Communication è arrivato ad agosto 2019 per gestire l’ufficio stampa di una manifestazione a cavallo tra scienza, turismo e ambiente che si chiama Settimana del Pianeta Terra, un festival che ha l’obiettivo di valorizzare il patrimonio geologico e con molti aspetti legati alla sostenibilità, un tema che mi sta molto a cuore e di cui mi ero già occupata per lunghi anni in agenzia, gestendo progetti di importanza strategica per grandi clienti. Di questa nuova fase professionale, un altro aspetto che mi piace molto, è anche in qualche modo poter scegliere con chi vuoi lavorare: a volte, scegliere un potenziale cliente e riuscire a lavorarci è un po’ come conoscere il tuo cantante preferito. E così oggi abbiamo un gruppo di clienti nei settori alimentare, vino e bevande, ristorazione, sanificazione, design…
E la squadra?
Lavoro con un team di professionisti che hanno esperienze diverse nella comunicazione: Laura Trapani, in particolare, ha 15 anni di esperienza nelle PR, di cui metà trascorsi con me nella precedente attività e altrettanti come responsabile della comunicazione per una storica azienda italiana di giocattoli. All’inizio del 2020 ci siamo ritrovate, entrambe alla ricerca di nuove sfide e una sorta di riscatto attraverso il nostro lavoro. Master Communication ha dato a lei un’opportunità di cambiamento e lei sta dando un enorme contributo alla crescita di Master Communication. Insieme a noi ci sono altre figure specializzate nell’ufficio stampa in ambito sanitario, negli eventi automotive, che collaborano ad alcuni progetti specifici, e figure junior che, con la nuova sede in allestimento a Torino, potremo dedicarci a formare e far crescere, trasferendo loro quello che sappiamo.
Come si alimenta nel tempo il suo “embrione” da giornalista?
Non ho collaborazioni in attivo, anche se mi piacerebbe. Ma cerco davvero di collaborare con giornalisti e redazioni. Forse per questo diversi editori ci hanno contattato per studiare e realizzare insieme progetti di comunicazione dedicati a loro, di transizione, di trasformazione a nuovi servizi. E questo lo trovo estremamente affascinante.
Nel primo anno di vita di Master Communication, inoltre, abbiamo realizzato una importante iniziativa con L’Eco della Stampa, storica società italiana di media monitoring: il primo Report sulla presenza del cibo nei media italiani, misurando per la prima volta lo spazio effettivo occupato dai contenuti alimentari per un intero anno, il 2019, sui mezzi di comunicazione, e individuando i principali temi, personaggi, eventi, categorie merceologiche emersi. Una iniziativa necessaria, perché tutti sappiamo quanto si parla e scrive di cibo in Italia, ma nessuno lo aveva mai misurato.
Oltre la comunicazione, il "purpose"...
Sì, sempre. Credo in una comunicazione concreta: si comunica ciò che si fa davvero, ciò che trova riscontro nelle azioni; se si vuole comunicare il bene, allora bisogna prima farlo, quel bene; in questo senso, la comunicazione ha un potere positivo enorme, se ci pensiamo, di imprimere un’accelerazione dei comportamenti virtuosi. Credo in una comunicazione etica: i valori positivi devono essere comunicati e diffusi, non per incensarsi, ma per dare il buon esempio; se non si comunica il bene, si rischia che venga comunicato solo il negativo e questo non è giusto; se comunicato, il bene può essere imitato e replicato. Capendo quanto bene può derivare dalla comunicazione, questo lavoro non si può fare se non con una grande passione e senso di responsabilità che arriva poi a permeare fin nel minimo dettaglio tutte le azioni che hanno a che fare con la comunicazione. E, se ci pensiamo attentamente, tutto o quasi è comunicazione.
Anche quella con i clienti.
Il nostro supporto ai clienti va ben al di là della produzione di comunicati stampa e delle relazioni con i media: con i clienti si crea un rapporto di fiducia per cui veniamo coinvolti in molte questioni, dalla ricerca di un candidato ideale per la direzione marketing al copy per pubblicare un post su LinkedIn, dalla scelta delle parole per rispondere ad un commento un po’ spigoloso su facebook al testo di una lettera da inviare ai dipendenti… un coinvolgimento che deriva dal vivere il rapporto cliente -fornitore in modo più profondo, come se fossimo davvero all’interno di ciascuna azienda.
Come nasce un piano di comunicazione?
Il processo parte sempre dall’individuazione dei valori identitari, della mission di un’azienda e della sua promessa agli stakehlders, interni ed esterni. Sulla base di questi, si elaborano i messaggi e si costruisce la narrazione del brand/azienda. La fase di raccolta informazioni è fondamentale, bisogna stare a fianco del cliente, ascoltarlo e poi fare molte domande, per far emergere aspetti di cui talvolta non sono consapevoli o che per loro sono scontati, ma spesso sono strategici per la buona riuscita della comunicazione. Questa fase mi appassiona molto, è la fase in cui si entra in connessione profonda col cliente, se ne diventa parte. La breve esperienza giornalistica fatta all’inizio del percorso professionale mi aiuta molto nella costruzione dei contenuti e credo che rappresenti una parte importante della buona riuscita dei progetti a cui stiamo lavorando.
Beh, le buone relazioni con i giornalisti sono fondamentali.
Il nostro lavoro è, in fondo, cercare costantemente quel delicato punto di equilibrio tra ciò che il cliente ha interesse a comunicare e ciò che per una redazione può essere davvero interessante. Il vero successo arriva quando tutte le parti sono soddisfatte: il cliente, il giornalista/redazione e noi. In quest’ultimo anno, mi è capitato spesso di sentire commenti positivi da giornalisti che hanno apprezzato la cura dei contenuti forniti, così come clienti che, prima che elaborassimo la loro cartella stampa, erano totalmente privi di un materiale che esponesse con una narrazione logica e valorizzante chi sono, cosa fanno e come lo fanno.
Com'è, far nascere e far crescere un'impresa femminile ai tempi del Covid-19?
Venire via dopo tanti anni trascorsi in un’agenzia consolidata e ricominciare da zero con una nuova identità significa anche mettersi completamente in gioco come persona, verificare se come singolo, senza la cornice di una struttura precostituita, hai lo stesso valore e il mercato te lo riconosce. Tutto potevo aspettarmi, tranne che nel corso del primo anno di attività arrivasse un evento straordinario come la pandemia da Covid-19. Ho avuto molta, moltissima paura. Quando le aziende si trovano nella necessità di dover risparmiare, una delle prime voci di costo ad essere tagliate è la comunicazione. Invece nei mesi del lockdown abbiamo lavorato ancora di più. Non solo siamo andati avanti con i clienti già attivi, ma abbiamo acquisito nuovi clienti. Alcuni di questi non li abbiamo ancora mai incontrati di persona: sono arrivati su segnalazione di fornitori, conoscenti e ci siamo conosciuti solo attraverso uno schermo. In questi mesi ho notato una voglia crescente da parte delle aziende di comunicare e, soprattutto, siamo stati contattati da molte aziende che si occupano di tecnologia e innovazione in diversi settori. Questo è un ottimo segnale non solo per la comunicazione ma anche per l’avanzamento dell’intera società.
E lo smart working?
Lo smart working lo stavamo già facendo prima del Covid, perché nel primo anno non potevamo ancora permetterci i costi di una sede, che poi abbiamo fortemente voluto, perché un luogo fisico rappresenta concretamente un progetto comune, un luogo in cui lo scambio di esperienze e idee diventa più immediato e possibile. Inoltre, quello che per mesi abbiamo continuato a chiamare smart working è stato in gran parte home working, come quella che abbiamo chiamato didattica a distanza è stata home schooling. Non dimentichiamoci che “smart” significa intelligente e brillante, non riguarda la sede fisica in cui svolgi il lavoro. Nello smart working il modo in cui affronti e gestisci il lavoro è più importante del luogo in cui lo fai. Perché il lavoro diventi veramente smart, secondo me, serve un cambio culturale e di mentalità profondo, che non si può risolvere nell’emergenza imposta violentemente da una pandemia da un giorno all’altro. In questo caso si è trattato di necessità di sopravvivenza, di un modo per far andare comunque avanti le cose, ma è emerso che da un punto di vista culturale e quindi anche di strumenti eravamo impreparati. Credo che la strada giusta per il futuro sia un corretto equilibrio tra lavoro in ufficio e a casa o ovunque lo si voglia/possa svolgere.
Facile a dirsi, un po' meno a farsi.
Questo è possibile prima di tutto se c’è una reale relazione di fiducia tra chi dà lavoro e chi lo svolge: chi lo dà deve fidarsi della capacità del collaboratore di svolgerlo secondo le necessità e scadenze con la dovuta qualità; chi lo svolge deve avere un grande senso di correttezza e responsabilità, che viene dal sentirsi davvero una parte importante per il buon funzionamento di un’azienda. Credo che in questo risieda anche la possibilità di raggiungere quel giusto equilibrio tra vita privata e lavoro di cui oggi si parla tanto, il work life balance. E può anche rappresentare la soluzione per permettere alle donne di non dover rinunciare alla carriera o alla famiglia. Lo smart working darebbe ad esempio a una donna la serenità di gestire un figlio a casa da scuola con la febbre senza l’ansia di temere pressioni psicologiche o ritorsioni sul lavoro.
La sede di Master Communication è stata scelta affinché fosse comoda non solo per me, ma anche e soprattutto per chi collabora con me. È un punto di riferimento, un porto sicuro per chi vuole lavorare in presenza, ma aperto alla navigazione per chi avrà necessità di lavorare da remoto, alternando i momenti secondo necessità e preferenza, in modo che il lavoro sia sempre più smart, non solo a parole.
Ma cosa c'è dietro a un'agenzia di comunicazione?
Affidare la propria reputazione a qualcun altro significa stringere un rapporto di collaborazione così stretto da richiedere una conoscenza decisamente intima: se è giusto che l'azienda mostri a chi si occupa della comunicazione anche i propri punti deboli, in modo da prevenire eventuali scivoloni, è altrettanto giusto che il comunicatore/comunicatrice si apra completamente con il cliente. C’è del bello, bellissimo direi, nelle ricchissime storie, troppo spesso sconosciute, che si celano dietro i brand che ogni giorno scegliamo. Ci sono persone, spesso famiglie, ed è insieme un grande privilegio e una seria responsabilità poterne gestire l’immagine pubblica e la visibilità sui media, restando nell'ombra.
L'imprinting conta: lei, il suo, l'ha ricevuto giovanissima, già durante il percorso di studi in Lingue e Letterature straniere moderne europee
Volevo continuare a mantenermi gli studi in modo indipendente, quindi ho risposto all’annuncio di una piccola agenzia stampa torinese che produceva informazione per le comunità italiane nel mondo e mi permetteva quindi anche di utilizzare le lingue straniere. Dapprima come collaboratrice esterna e poi come dipendente ho iniziato ad imparare da zero il lavoro del giornalismo e, dopo due anni di pratica, ho potuto iscrivermi all’albo dei giornalisti pubblicisti. Lavorando in una realtà molto piccola ho imparato molto, perché ho dovuto occuparmi di molti aspetti, acquisendo gradualmente maggiori responsabilità fino a diventare una sorta di caporedattore. Una parola altisonante per dire che mi occupavo praticamente di tutto, come succede nelle piccole realtà.
Non sarà stato facile, studiare e lavorare...
È stata dura portare avanti tutte le cose contemporaneamente e rischiavo di lasciare indietro lo studio. Non solo non volevo darla vinta ai miei che temevano non portassi a termine l’università, ma anche io ho uno spirito conservativo (mi spiace sprecare quello che mi ha richiesto tempo e impegno) e ambizioso (cerco di arrivare sempre all’obiettivo) e così mi sono licenziata per cercare qualcosa che mi permettesse di terminare gli studi. Ho allargato l’orizzonte dal giornalismo alla comunicazione in generale e ho mandato il curriculum a tappeto a tutte le società esistenti a Torino: dalle redazioni della carta stampata alle radio e tv, uffici stampa e agenzie di Pubbliche Relazioni, eventi… E ho avuto la fortuna di capitare al momento giusto in uno studio storico torinese di pubbliche relazioni. Sono stata assunta e poco dopo ho anche discusso la mia tesi di laurea in letteratura spagnola contemporanea, che include la mia più grande soddisfazione da giornalista: un’intervista esclusiva allo scrittore ormai scomparso Manuel Vázquez Montalbán (ispiratore del nostro Montalbano di Camilleri) sullo strano rapporto del suo personaggio Pepe Carvalho con i libri.
Da zero a 100 in pochi anni.
Non sapevo davvero cosa fossero le Pubbliche Relazioni, ma rientravano nella comunicazione e questo mi bastava, perché nel frattempo avevo scoperto che, nonostante il mio riserbo, la comunicazione per gli altri mi piaceva. Così sono passata dall’altra parte della barricata: all’epoca erano davvero due lavori diversi e separati, se non addirittura contrapposti, giornalisti da una parte e comunicatori dall’altra. Oggi la situazione è molto più fluida.
Gli studi hanno contato molto.
Ritengo che la cultura umanistica sia la base necessaria per tutte le discipline, incluso quelle scientifiche. Credo che una buona cultura umanistica sia fondamentale anche per un imprenditore o un manager, alla guida di un’azienda o di una parte di essa, perché oltre a saper leggere i numeri e organizzare il lavoro ha la responsabilità enorme del capitale umano. Ma conta anche l'esperienza sul campo: ho potuto interfacciarmi con grandi aziende, i nostri clienti, e capire come lavorano e cosa si aspettano. Un altro grande vantaggio è stato sicuramente la possibilità di lavorare trasversalmente ai settori: dalla cultura all’agroalimentare, dalla scienza all’industria, dalla cosmetica al turismo. E questo approccio è stato particolarmente avvincente per me, che sono una persona curiosa e mi piace imparare tutti i giorni qualcosa di diverso. E tuttora, un aspetto che amo in particolare del mio lavoro, è che per poter proporre contenuti ai media devo prima averli appresi io dai nuovi clienti e averli elaborati. In quasi vent’anni di PR ho imparato un sacco di cose che tornano utili nella vita quotidiana e permettono di avere una visione spesso approfondita e molto ampia delle cose.
Finché non è arrivato il momento di mettersi in proprio.
All’inizio del 2019, dopo tanti anni in agenzia, ho deciso di ricominciare da zero costruendo qualcosa di mio. È stato un grande cambiamento, una decisione a cui sono arrivata dopo anni di valutazioni. Caratterialmente ho bisogno di imparare continuamente, mi piace annusare l’aria intorno a me, vedere come si muove il mondo al di fuori, sperimentare cose nuove… nel frattempo il mondo è cambiato e la comunicazione in particolare.
In che senso?
Oggi la comunicazione annovera molte altre figure di comunicatori, non ci sono più solo giornalisti e uffici stampa, ma un sacco di nuove altre figure nate con i nuovi media. La situazione è fluida e i confini tra una e l’altra si sfumano sempre più. L’immagine delle aziende e delle persone passa da molti canali diversi, non più solo dai media tradizionali (che peraltro sono chiamati anche loro ad adattarsi a nuovi strumenti e modalità) ed è compito del responsabile delle PR conoscere e aggiornarsi costantemente per capire e poter gestire tutti i canali in modo coerente tra loro e rispondente ad una strategia globale, per poter offrire ai propri clienti una visione ed una consulenza professionale completa. Si tratta di mondi interconnessi e collegabili in un flusso di comunicazione circolare e continuo: una grande opportunità!
È diventato un mestiere molto complicato.
Attenzione: non sto affermando che una sola persona può sapere e saper fare tutto, assolutamente no. Ritengo però che chi vuole essere consulente di comunicazione, e poi a livello operativo occuparsi nello specifico della parte di relazioni con i media, deve necessariamente aggiornarsi, studiare e formarsi per capire anche i nuovi media, con le loro dinamiche e le opportunità che offrono. Perché oggi le aziende vogliono principalmente questo. E non conoscerli significa essere manchevoli nei confronti dei clienti, avere delle lacune che non ti consentono di rapportarti al meglio con loro e di non essere neanche in grado di interloquire con altri professionisti a cui magari i clienti affidano le digital e social PR. Quando ho deciso di cambiare, avevo ben chiaro in mente che non volevo subire l’evoluzione in atto, ma cavalcarla ed essere libera di sperimentare. Inoltre, non ho mai visto i nuovi media come gli antagonisti dei media tradizionali.
No?
Sono diversi e in questa diversità cerco di vedere l’opportunità della crescita nella loro integrazione: i media tradizionali, con i loro brand e la loro credibilità costruiti in decenni, sono quello che genera immagine e reputazione; ma i nuovi media, con la potenza dei numeri e lo spazio praticamente infinito possono valorizzare ulteriormente ciò che viene prodotto dalle PR sui media tradizionali, facendo circolare gli articoli laddove magari nella versione cartacea non sarebbero mai arrivati, prolungando la loro vita ben al di là della loro presenza in edicola, costruendo nel tempo un archivio di reputazione sul web basato sull’autorevolezza della carta.
Non avrà fatto tutto da sola, però...
Nella mia mente era già chiaro che non avrei voluto rimanere sola, volevo ricostruire una squadra di persone. E quindi, anziché diventare una libera professionista, ho voluto fondare Master Communication, nata ufficialmente il 7 maggio 2019, e mi sono dedicata alla ricerca clienti. In questa fase di costruzione ho avuto molti sostenitori, oltre a mio marito che mi ha sempre incoraggiato in tutto quello che ho fatto: amici, giornalisti, colleghi e anche concorrenti, professionisti conosciuti negli anni precedenti, che mi hanno aiutato ad entrare in contatto con potenziali clienti.
Perché il nome "Master Communication"?
Non volevo usare il mio nome, perché non volevo appunto restare sola ma avere dei collaboratori, quindi non aveva senso personalizzare troppo. Non sapendo da dove partire per trovare il nome, sono partita comunque dalle mie iniziali per trovare un binomio che esprimesse un’idea di comunicazione a me vicina. Master Communication significa contemporaneamente: “esperti di comunicazione” (perché la società è giovane ma con me e le persone che collaborano abbiamo molti anni di esperienza) ed è anche un invito a governare e gestire la comunicazione in modo consapevole. Anche l’idea del logo è mia, realizzata da un giovane e bravo grafico: La “C” di Communication diventa una vignetta per evocare la comunicazione; la “M” contenuta dalla “C” richiama il simbolo “@”, per coniugare tradizionale e digitale.
E poi sono arrivati i primi clienti.
Il primo incarico per Master Communication è arrivato ad agosto 2019 per gestire l’ufficio stampa di una manifestazione a cavallo tra scienza, turismo e ambiente che si chiama Settimana del Pianeta Terra, un festival che ha l’obiettivo di valorizzare il patrimonio geologico e con molti aspetti legati alla sostenibilità, un tema che mi sta molto a cuore e di cui mi ero già occupata per lunghi anni in agenzia, gestendo progetti di importanza strategica per grandi clienti. Di questa nuova fase professionale, un altro aspetto che mi piace molto, è anche in qualche modo poter scegliere con chi vuoi lavorare: a volte, scegliere un potenziale cliente e riuscire a lavorarci è un po’ come conoscere il tuo cantante preferito. E così oggi abbiamo un gruppo di clienti nei settori alimentare, vino e bevande, ristorazione, sanificazione, design…
E la squadra?
Lavoro con un team di professionisti che hanno esperienze diverse nella comunicazione: Laura Trapani, in particolare, ha 15 anni di esperienza nelle PR, di cui metà trascorsi con me nella precedente attività e altrettanti come responsabile della comunicazione per una storica azienda italiana di giocattoli. All’inizio del 2020 ci siamo ritrovate, entrambe alla ricerca di nuove sfide e una sorta di riscatto attraverso il nostro lavoro. Master Communication ha dato a lei un’opportunità di cambiamento e lei sta dando un enorme contributo alla crescita di Master Communication. Insieme a noi ci sono altre figure specializzate nell’ufficio stampa in ambito sanitario, negli eventi automotive, che collaborano ad alcuni progetti specifici, e figure junior che, con la nuova sede in allestimento a Torino, potremo dedicarci a formare e far crescere, trasferendo loro quello che sappiamo.
Come si alimenta nel tempo il suo “embrione” da giornalista?
Non ho collaborazioni in attivo, anche se mi piacerebbe. Ma cerco davvero di collaborare con giornalisti e redazioni. Forse per questo diversi editori ci hanno contattato per studiare e realizzare insieme progetti di comunicazione dedicati a loro, di transizione, di trasformazione a nuovi servizi. E questo lo trovo estremamente affascinante.
Nel primo anno di vita di Master Communication, inoltre, abbiamo realizzato una importante iniziativa con L’Eco della Stampa, storica società italiana di media monitoring: il primo Report sulla presenza del cibo nei media italiani, misurando per la prima volta lo spazio effettivo occupato dai contenuti alimentari per un intero anno, il 2019, sui mezzi di comunicazione, e individuando i principali temi, personaggi, eventi, categorie merceologiche emersi. Una iniziativa necessaria, perché tutti sappiamo quanto si parla e scrive di cibo in Italia, ma nessuno lo aveva mai misurato.
Oltre la comunicazione, il "purpose"...
Sì, sempre. Credo in una comunicazione concreta: si comunica ciò che si fa davvero, ciò che trova riscontro nelle azioni; se si vuole comunicare il bene, allora bisogna prima farlo, quel bene; in questo senso, la comunicazione ha un potere positivo enorme, se ci pensiamo, di imprimere un’accelerazione dei comportamenti virtuosi. Credo in una comunicazione etica: i valori positivi devono essere comunicati e diffusi, non per incensarsi, ma per dare il buon esempio; se non si comunica il bene, si rischia che venga comunicato solo il negativo e questo non è giusto; se comunicato, il bene può essere imitato e replicato. Capendo quanto bene può derivare dalla comunicazione, questo lavoro non si può fare se non con una grande passione e senso di responsabilità che arriva poi a permeare fin nel minimo dettaglio tutte le azioni che hanno a che fare con la comunicazione. E, se ci pensiamo attentamente, tutto o quasi è comunicazione.
Anche quella con i clienti.
Il nostro supporto ai clienti va ben al di là della produzione di comunicati stampa e delle relazioni con i media: con i clienti si crea un rapporto di fiducia per cui veniamo coinvolti in molte questioni, dalla ricerca di un candidato ideale per la direzione marketing al copy per pubblicare un post su LinkedIn, dalla scelta delle parole per rispondere ad un commento un po’ spigoloso su facebook al testo di una lettera da inviare ai dipendenti… un coinvolgimento che deriva dal vivere il rapporto cliente -fornitore in modo più profondo, come se fossimo davvero all’interno di ciascuna azienda.
Come nasce un piano di comunicazione?
Il processo parte sempre dall’individuazione dei valori identitari, della mission di un’azienda e della sua promessa agli stakehlders, interni ed esterni. Sulla base di questi, si elaborano i messaggi e si costruisce la narrazione del brand/azienda. La fase di raccolta informazioni è fondamentale, bisogna stare a fianco del cliente, ascoltarlo e poi fare molte domande, per far emergere aspetti di cui talvolta non sono consapevoli o che per loro sono scontati, ma spesso sono strategici per la buona riuscita della comunicazione. Questa fase mi appassiona molto, è la fase in cui si entra in connessione profonda col cliente, se ne diventa parte. La breve esperienza giornalistica fatta all’inizio del percorso professionale mi aiuta molto nella costruzione dei contenuti e credo che rappresenti una parte importante della buona riuscita dei progetti a cui stiamo lavorando.
Beh, le buone relazioni con i giornalisti sono fondamentali.
Il nostro lavoro è, in fondo, cercare costantemente quel delicato punto di equilibrio tra ciò che il cliente ha interesse a comunicare e ciò che per una redazione può essere davvero interessante. Il vero successo arriva quando tutte le parti sono soddisfatte: il cliente, il giornalista/redazione e noi. In quest’ultimo anno, mi è capitato spesso di sentire commenti positivi da giornalisti che hanno apprezzato la cura dei contenuti forniti, così come clienti che, prima che elaborassimo la loro cartella stampa, erano totalmente privi di un materiale che esponesse con una narrazione logica e valorizzante chi sono, cosa fanno e come lo fanno.
Com'è, far nascere e far crescere un'impresa femminile ai tempi del Covid-19?
Venire via dopo tanti anni trascorsi in un’agenzia consolidata e ricominciare da zero con una nuova identità significa anche mettersi completamente in gioco come persona, verificare se come singolo, senza la cornice di una struttura precostituita, hai lo stesso valore e il mercato te lo riconosce. Tutto potevo aspettarmi, tranne che nel corso del primo anno di attività arrivasse un evento straordinario come la pandemia da Covid-19. Ho avuto molta, moltissima paura. Quando le aziende si trovano nella necessità di dover risparmiare, una delle prime voci di costo ad essere tagliate è la comunicazione. Invece nei mesi del lockdown abbiamo lavorato ancora di più. Non solo siamo andati avanti con i clienti già attivi, ma abbiamo acquisito nuovi clienti. Alcuni di questi non li abbiamo ancora mai incontrati di persona: sono arrivati su segnalazione di fornitori, conoscenti e ci siamo conosciuti solo attraverso uno schermo. In questi mesi ho notato una voglia crescente da parte delle aziende di comunicare e, soprattutto, siamo stati contattati da molte aziende che si occupano di tecnologia e innovazione in diversi settori. Questo è un ottimo segnale non solo per la comunicazione ma anche per l’avanzamento dell’intera società.
E lo smart working?
Lo smart working lo stavamo già facendo prima del Covid, perché nel primo anno non potevamo ancora permetterci i costi di una sede, che poi abbiamo fortemente voluto, perché un luogo fisico rappresenta concretamente un progetto comune, un luogo in cui lo scambio di esperienze e idee diventa più immediato e possibile. Inoltre, quello che per mesi abbiamo continuato a chiamare smart working è stato in gran parte home working, come quella che abbiamo chiamato didattica a distanza è stata home schooling. Non dimentichiamoci che “smart” significa intelligente e brillante, non riguarda la sede fisica in cui svolgi il lavoro. Nello smart working il modo in cui affronti e gestisci il lavoro è più importante del luogo in cui lo fai. Perché il lavoro diventi veramente smart, secondo me, serve un cambio culturale e di mentalità profondo, che non si può risolvere nell’emergenza imposta violentemente da una pandemia da un giorno all’altro. In questo caso si è trattato di necessità di sopravvivenza, di un modo per far andare comunque avanti le cose, ma è emerso che da un punto di vista culturale e quindi anche di strumenti eravamo impreparati. Credo che la strada giusta per il futuro sia un corretto equilibrio tra lavoro in ufficio e a casa o ovunque lo si voglia/possa svolgere.
Facile a dirsi, un po' meno a farsi.
Questo è possibile prima di tutto se c’è una reale relazione di fiducia tra chi dà lavoro e chi lo svolge: chi lo dà deve fidarsi della capacità del collaboratore di svolgerlo secondo le necessità e scadenze con la dovuta qualità; chi lo svolge deve avere un grande senso di correttezza e responsabilità, che viene dal sentirsi davvero una parte importante per il buon funzionamento di un’azienda. Credo che in questo risieda anche la possibilità di raggiungere quel giusto equilibrio tra vita privata e lavoro di cui oggi si parla tanto, il work life balance. E può anche rappresentare la soluzione per permettere alle donne di non dover rinunciare alla carriera o alla famiglia. Lo smart working darebbe ad esempio a una donna la serenità di gestire un figlio a casa da scuola con la febbre senza l’ansia di temere pressioni psicologiche o ritorsioni sul lavoro.
La sede di Master Communication è stata scelta affinché fosse comoda non solo per me, ma anche e soprattutto per chi collabora con me. È un punto di riferimento, un porto sicuro per chi vuole lavorare in presenza, ma aperto alla navigazione per chi avrà necessità di lavorare da remoto, alternando i momenti secondo necessità e preferenza, in modo che il lavoro sia sempre più smart, non solo a parole.